All’interno del fenomeno della devianza si rintracciano tre dimensioni: il comportamento, la norma e la reazione sociale (De Leo 1981): perché si possa parlare di devianza sono necessarie un comportamento, quindi un agito e una norma che viene violata; ciò va ad interagire con le gli stereotipi, i pregiudizi, i ruoli sociali che influenzano e indirizzano l’orientamento del soggetto a rischio ancor prima che il comportamento si verifichi.
Spesso infatti il dialogo mediatico e istituzionale raccoglie ansie sociali generalizzate intorno ad alcuni accadimenti, che divengono il centro di canalizzazione delle energie volte a ripristinare un equilibrio morale, modificato da altre cause più sfumante e globali; ciò crea immagini personificate del “male” e introduce giustificazioni morali a fenomeni come l’ostracismo, segregazione, detenzione.
Allo scopo di costruire ipotesi e teorie circa la natura ma anche la pericolosità sociale di alcune condotte devianti, occorre differenziare l’atto deviante in sé dalla assunzione di identità deviante con il successivo percorrimento di carriere devianti.
Lemert, nei suoi studi, indica il passaggio ad una vera e propria carriera deviante come scelta di vivere percorsi rischiosi di devianza, cui seguono denigrazione sociale e stigmatizzazione, di entità tali da portare la persona a riconoscersi progressivamente nel “male”. Becker complessizza tale passaggio da compimento dell’atto singolo, a scelta della carriera deviante come generato non tanto da motivazioni intrinseche ma dalla sperimentazione dei benefici conseguenti il comportamento deviante: le fasi identificate per il compimento del passaggio sono:
1. predisposizione alla trasgressione;
2. commissione del singolo atto;
3. riconoscimento di devianza da parte della società o del gruppo di riferimento
4. ingresso nel gruppo criminale organizzato

Il punto cruciale che stabilizza e rende drastica la scelta resta comunque, in linea con le idee di
Lemert, proprio il riconoscimento sociale della natura deviante del comportamento.
Secondo la scuola di psicologia giuridica genovese (Bandini, Gatti, 1987) per la maturazione del
passaggio sono fondamentali le reazioni di rabbia conseguenti il rifiuto della società perché creano
una incongruenza tra l’idea di sé e lo stigma di antisociale e deviante, cui segue un adattamento
della propria identità al ruolo socialmente attribuito.
Alcuni autori introducono il concetto di violentizzazione conseguente alla esposizione prolungata a condotte violente prima vissute su di sé, poi applicate come codice comportamentale efficace e vantaggioso all’interno del gruppo di riferimento.
De Leo integra tali approcci proponendo non solo l’assunzione del comportamento deviante come reazione ad etichettamenti sociali ma anche valutando il valore di rischio o protezione del gruppo sociale di riferimento, tale per cui i comportamenti devianti vengono applicati in modo aspecifico a molteplici contesti.
In questa ottica, l’idea di una interruzione della carriera deviante, anche quando desiderata, viene vista come problematica, in quanto il gruppo sociale di appartenenza spinge verso le condotte devianti, in modo sia implicito che esplicito, per il mantenimento dello status quo.
Il sistema penale italiano in coerenza con l’art. 27 della Carta Costituzionale, che vede la pena detentiva come destinata alla rieducazione e riabilitazione del detenuto, ha assorbito le idee dei teorici della psicologia giuridica e mira ad integrare la necessità di auto-protezione e di mantenimento dell’ordine sociale, con i principi di riabilitazione e responsabilizzazione del reo.
Nell’ultimo ventennio del secolo scorso sono state sperimentate forme di giustizia alternativa e ripartiva a livello internazionale, soprattutto con autori di reato minorenni, attraverso la sperimentazione di piani riabilitazione basati sul reato e non sulla persona, allo scopo di permettere alla famiglia di riappropriarsi del ruolo educativo, seppure con l’adeguato sostegno sociale. Un modello esemplificativo sono le Family Group Conferences in cui i rappresentanti dello Stato (giudici, servizi sociali, legali) e il gruppo affettivo di appartenenza (famiglia) co-agiscono per ripristinare il percorso educativo e riabilitativo del minore. Questi modelli vengono efficacemente applicati anche al bullismo, per la promozione del capitale sociale, della disciplina sociale e del benessere emotivo, attraverso il coinvolgimento civile e l’approccio partecipato.
La legge 354 del 26 Luglio 1975 art. 79 prevede l’applicazione ai minori di piani di interventi istituzionali finalizzati al trattamento rieducativo volti a modificare le condizioni di vita, gli atteggiamenti personali e i legami familiari ostacolanti il cambiamento . I trattamenti riabilitativi sono appannaggio dei detenuti con sentenza definitiva e sono costruiti a partire da una attenta analisi dei bisogni, delle caratteristiche della personalità e delle carenze fisico-psichiche e del grado di disadattamento.
I contatti con l’esterno e le misure alternative sono auspicate, e vengono concesse per reati con bassa pericolosità sociale e recidiva, per motivi di salute o per madri con figli minori di 3 anni; inoltre viene concessa la semilibertà in prossimità della fine della pena detentiva, per un reinserimento graduale.
La pena detentiva infatti produce danni da detenzione al reo che manifesta sintomatologie varie (depressioni, tentativi di suicidio, ansia) e che spesso abdica ai ruoli sociali in seguito alle alte privazioni cui è sottoposto.
Nel contratto psicologico di trattamento spesso è necessario rendere consapevole il detenuto delle possibilità offerte dal carcere di studio, di sport etc etc.
Ciò permette non solo di perseguire le aspirazione del legislatore in merito al reinserimento, ma anche di ridurre il rancore e il desiderio di vendetta provati dal detenuto rispetto alla società da cui si sente escluso, per favorire il cambiamento e la costruzione di una nuova identità, al fine di prevenzione della recidiva.
In quest’ottica di tutela sociale e prevenzione si colloca il DPR 448/88 che ha riformato il processo a carico di minori, una legislazione tra le più all’avanguardia, grazie ai principi di minima offensività e all’attitudine responsabilizzante, cui debbono tendere gli interventi processuali con imputati minorenni. I punti salienti che meglio rendono il potere innovativo del suddetto decreto si
possono sintetizzare nei seguenti punti:
 -attenzione agli aspetti ed educativi del minore, con la abbreviazione dei tempi processuali e la non interruzione dei percorsi educativo-formativi;
- de-istituzionalizzazione del minore attesa di processo, con le misure di custodia cautelare domiciliare e le CPA;
 attenzione alla personalità dell’imputato con la analisi della capacità di stare in giudizio e la capacità di intendere e volere rispetto ai fatti oggetto di imputazione;
- destigmantizzazione con l’estinzione di reati distinguibili per tenuità o occasionalità e la possibilità di messa alla prova per estinzione dei reati;
In merito a quest’ultimo punto tuttavia l’ottica di responsabilizzazione non si esaurisce solamente rispetto all’azione ma soprattutto implica una riflessione sulle conseguenza dell’azione deviante, allo scopo di evitare, da parte della giustizia, quelle forme di coercizione e detenzione che possono introdurre a violentizzazioni secondarie alla carcerazione del minore e prevenire la scelta di una carriera deviante.
Per potere realizzare un efficace percorso alternativo alla detenzione è necessario coinvolgere e supportare il sistema educativo- familiare spesso coinvolto direttamente e indirettamente nella scelta della devianza; ciò tuttavia presuppone un lavoro individuale con la singola famiglia e sociale nel rilancio delle zone economicamente, socialmente e culturalmente depresse.
La probation, con la sospensione del processo e la messa alla prova, se da un lato costituisce una occasione di de-stigmatizzazione, dall’altro si ravvede come una intrusione delle istituzioni nella vita di un minore prima ancora che siano accertate le verità processuali attraverso il dibattimento. Per poter accedere alla messa alla prova e alla conseguente possibilità di archiviazione o proscioglimento deve essere presente nel minore una assunzione di responsabilità circa l’antigiuridicità del fatto; il tipo di reato commesso incide sulla possibile
applicazione della misura di probation, utile nei casi medio-gravi, mentre per i reati gravi vanno valutati l’impatto sulla vittima e la rilevanza sociale dell’atto. Il periodo di messa alla prova deve essere congruo sia al reato che all’età evolutiva del minore; le misure alternative infatti hanno una funzione valutativa ma non sostitutive delle atre agenzie educative naturali. L’iter di compimento della messa alla prova prevede le fasi di Proposta della Probation la stesura del progetto di intervento, la valutazione degli esiti. Eventuali lievi e occasionali violazioni in corso di esecuzione non sono da ritenersi necessariamente punibili ma possono evidenziare i fattori di rischio educativo su cui intervenire. Un ultimo aspetto rilevante della probation, già utilizzato nei sistemi di giustizia di altri Paesi (Canada, Nuova Zelanda..) prevede la ripersonalizzazione del rapporto con la vittima che include la presa di coscienza e la responsabilizzazione rispetto alla sofferenza causata alla vittima: spesso l’autore di atti devianti applica distorsioni cognitive in grado di negare il danno provocato alla vittima: questo meccanismo è un obiettivo importante del progetto di cambiamento in quanto permette la modifica dei presupposti cognitivi al disimpegno morale.
Un ultimo spunto di riflessione riguarda l’insicurezza e la paura della criminalità nella società: l’Organizzazione mondiale della Sanità ha inserito nella percezione della felicità anche la paura della criminalità nel senso di apprensione circa una possibile vittimizzazione. Ciò testimonia un crescente interesse per le vittime di violenza e di atti criminosi, allo scopo di evidenziare un profilo di rischio, sia nell’esposizione a luoghi o contesti pericolosi, sia legati alla personalità, con la presenza di ridotte consapevolezza di rischio e basse strategie di coping per la messa in atto di comportamenti auto-protettivi. Inoltre la valutazione dell’impatto fisico e psicologico che i varia reati producono .
Da questi studi emerge l’importanza di agire non solo su variabili esterne tipo il degrado urbano, ma anche sull’implementazione dell’autoefficacia e delle strategie di coping, in una logica più promozionale che preventiva, improntata al principio di agentività umana e di interazione.

Per ulteriori informazioni o approfondimenti contattami o scrivi compilando il form qui sotto:

[contact-form-7 404 "Non trovato"]